Video esplicativo proemio Eneide

PER IL CONFRONTO CON GLI ALTRI PROEMI TIENI CONTO DELLA PRESENZA, DELLA POSIZIONE, DELLE ATTRIBUZIONI RELATIVE A PAROLE CHIAVE COME:

armi, uomo, Musa, ira...

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Con il proemio, ossia con la premessa, l'introduzione al racconto vero e proprio, ha inizio l'Iliade. Il Proemio è costituito da un'invocazione e da una protasi. Nell'invocazione il poeta si rivolge a Calliope, Musa della poesia epica, affinché ispiri il suo canto. Nella protasi (o enunciazione dell'argomento) il poeta espone in modo breve e rapido l'argomento che si propone di cantare, cioè l'ira di Achille e le conseguenze che ne derivarono per Achei (suoi stessi compagni d'arme) e Troiani.

Il Proemio nella versione di Vincenzo Monti[modifica]

Quello che segue è il Proemio dell'Iliade realizzato da Vincenzo Monti. Nonostante non si basi sulla versione originale, greca, del poema, bensì riformuli traduzioni dal latino, è la forma più nota in italiano[1].

Cantami, o Diva[2], del Pelìde[3] Achille
l'ira funesta[4] che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi[5],
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò[6] (così di Giove
l'alto consiglio s'adempìa[7]), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atrìde e il divo Achille[8].|

Vincenzo Monti, Iliade, I, 1-9; traduzione

Note[modifica]

  1.  DIVULGARE OMERO, di Luigi Battezzato, Treccani Scuola, 20 novembre 2007
  2.  Cantami, o Diva: "Ispirami a cantare, o Dea". Si tratta di Calliope, la Musa della poesia epica.
  3.  Pelìde: è Achille, figlio di Peleo.
  4.  funesta: apportatrice di dolori e di morte.
  5.  molte...eroi: trascinò (talvolse) nell'oltretomba (Orco) molte anime (alme) nobili (generose) di eroi morti prematuramente (anzi tempo).
  6.  e di...abbandonò: e abbandonò i loro corpi (salme) perché diventassero pasto orribile di cani e uccelli (augelli). Questo fatto per gli antichi era molto grave. Essi infatti ritenevano che l'anima di un corpo rimasto privo di sepoltura avrebbe errato senza pace.
  7.  così...s'adempìa: la suprema volontà si compiva.
  8.  quando...Achille: da quando all'inizio (primamente) una lite accanita (aspra contesa) divise (disgiunse) Agamennone figlio di Atrèo (Atrìde), il re dei valorosi guerrieri Achei, e il divino (divo) Achille. Egli è detto "divino" perché figlio della ninfa Teti.

Proemio dell'Odissea

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«Narrami, o musa, dell'eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell'animo suo,
per riacquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.
Tutti gli altri, che scamparono la ripida morte,
erano a casa, sfuggiti alla guerra e al mare:
solo lui, che bramava il ritorno e la moglie,
lo tratteneva una ninfa possente, Calipso, chiara tra le dee
nelle cave spelonche, vogliosa d'averlo marito.
E quando il tempo arrivò, col volger degli anni,
nel quale gli dei stabilirono Che a casa tornasse,
ad Itaca, neanche allora fu salvo da lotte
persino tra i suoi. Gli dei ne avevano tutti pietà,
ma non Posidone: furiosamente egli fu in collera
con Odisseo pari a un dio, finché non giunse nella sua terra.»

(Proemio dell'Odissea nella traduzione di Giuseppe Aurelio Privitera)

Il proemio dell'Orlando furioso di Ariosto
(Orlando furioso, I, 1-4

 
1
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.

2
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.

Io canto le donne, i cavalieri, le imprese militari, gli amori, le imprese cortesi e audaci che ci furono nel tempo in cui i mori d'Africa passarono il mare e fecero tanti danni in Francia, seguendo le ire e i furori giovanili del loro re Agramante, che si vantò di vendicare la morte del padre Troiano contro l'imperatore romano Carlo Magno.




Al tempo stesso racconterò di Orlando una cosa che non è mai stata detta né in prosa né in versi: cioè che per amore divenne furioso e matto, lui che prima era giudicato un uomo saggio; a patto che colei [Alessandra Benucci] che mi ha reso quasi come lui e che consuma il mio ingegno a poco a poco
 me ne conceda abbastanza per terminare l'opera promessa.






Torquato Tasso


Il proemio della Gerusalemme liberata
(Gerusalemme Liberata, I, 1-5)

 
1
Canto l'arme pietose e 'l capitano
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti.

2
O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte
d'altri diletti, che de' tuoi, le carte.

3
Sai che là corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che 'l vero, condito in molli versi,
i piú schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l'egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l'inganno suo vita riceve.


Canto le imprese devote e il condottiero [Goffredo di Buglione] che liberò il Santo Sepolcro. Egli compì molte opere con la ragione e con le gesta militari, soffrì molto nella gloriosa conquista; invano l'Inferno cercò di opporsi a lui e invano il popolo misto di Asia e Africa prese le armi. Il Cielo gli diede il suo favore ed egli ricondusse sotto le insegne della Croce i suoi compagni allettati dal vizio.



O Musa, tu che non ti circondi 
sul monte Elicona la fronte di allori destinati a cadere, ma hai una corona dorata di stelle immortali su nel cielo, tra i cori dei beati, tu ispira al mio petto ardori celesti, illumina il mio canto e perdonami se aggiungo abbellimenti alla verità, se adorno il mio poema con altri piaceri oltre ai tuoi.




Tu sai che i lettori si rivolgono volentieri a quelle opere in cui il lusinghiero Parnaso riversa maggiormente le sue dolcezze e che il vero, mescolato a piacevoli versi, ha persuaso i più ritrosi allettandoli. Così porgiamo al fanciullo malato gli orli del bicchiere cosparsi di sostanze dolci: egli, ingannato, beve una medicina amara, e dall'inganno riceve la vita.






CATABASI E NEKUIA

Eneide, VI libro, traduzione di Canali

 

Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte.
Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine
ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia.
Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume
Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie
incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma,
sordido pende dagli omeri annodato il mantello.
Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele,
e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno,
vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza.
Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,
donne e uomini, i corpi privati della vita
di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle,
e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:
quante nelle selve al primo freddo d'autunno
cadono scosse le foglie, o quanti dall'alto mare
uccelli s'addensano in terra, se la fredda stagione
li mette in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate.
Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto
e tendevano le mani per il desiderio dell'altra sponda.
Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,
gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.
Enea allora, meravigliato e turbato dal tumulto
Dimmi, o vergine!, esclama, che vuole la folla sul fiume?
che chiedono le anime? e per quale differenza le une
lasciano le rive, le altre solcano coi remi le livide acque?.
Così gli parlò brevemente l'annosa sacerdotessa:
Figlio d'Anchise, certissima prole di dei,
vedi i profondi stagni di Cocito e la palude stigia,
sulla potenza dei quali temono di spergiurare gli dei.
Tutta questa che scorgi è una misera turba insepolta;
il nocchiero è Caronte; questi, che porta l'onda, sono
i sepolti. Non si possono attraversare le rive paurose e la rauca
corrente, prima che le ossa riposino nella tomba.
Errano cento anni e s'aggirano su queste sponde:
allora, infine ammessi, rivedono gli stagni bramati.
Ristette il figlio d'Anchise e fermò i passi
assorto, con lanimo impietosito dall'ingiusta sorte.
...

Rispose in breve l'anfrisia veggente:
qui non vi sono tali insidie; cessa di adirarti;
le armi non portano violenza; L'immane portinaio nell'antro
atterrisca latrando in eterno le ombre esangui,
serbi Proserpina, casta, la soglia dello zio.
Il troiano Enea, insigne di pietà e d'armi,
discende al padre, tra le profonde ombre dell'Erebo.
Se non ti muove l'immagine di tanta pietà, almeno
riconosci il ramo e mostra il ramo che celava nel mantello.
Allora si placa il cuore gonfio d'ira.
Non fu detto nulla di più. Quegli, ammirando il venerabile dono
del fatale virgulto, veduto dopo lungo tempo,
volge la livida poppa, e accosta alla riva.
Indi scaccia le altre anime, che sedevano sui lunghi
banchi, e sgombra la tolda; insieme accoglie nello scafo
il grande Enea. Gemette sotto il peso la barca
intessuta di giunchi, e ricevette molta acqua dalle fessure.
Infine depose incolume al di là del fiume la veggente
e l'eroe sull'informe fanghiglia e tra la glauca erba palustre.
L'enorme Cerbero col latrato di tre fauci rintrona
i regni infernali, giacendo immane di fronte in un antro.
La profetessa, vedendo i colli arruffarsi di serpi,
gli getta un'offa soporosa di miele e di farina affatturata.
Quello con fame rabbiosa spalancando le tre gole
la afferra a volo, e rilassa le immani terga
sdraiam al suolo, ed enorme si estende per l'antro.
Enea varca l'entrata, sepolto il guardiano nel sonno,
e lascia rapido la riva dell'onda da cui non si torna.
Subito si udirono voci e un alto vagire,
piangenti anime d'infanti sul limitare della soglia,
che esclusi dalla dolce vita e strappati dal seno
un tetro giorno rapì e sommerse nella tomba acerba.
Accanto a loro i condannati a morte per ingiusta accusa.
Queste dimore non sono assegnate senza sorteggio
e senza giudice. Minosse, inquisitore, scuote l'urna;
convoca il concilio dei morti silenziosi e apprende le vite e le
colpe. Poi occupano mesti i luoghi vicini gli innocenti
che si diedero la morte di propria mano, e in odio
alla luce gettarono la vita. Quanto vorrebbero ora
sopportare sopra, nel cielo, la povertà e i duri affanni!
La legge si oppone, e li lega l'esecrabile palude dalla triste
onda, e lo Stige trascorre e li serra nove volte.

...

CONFRONTA CON il canto III (dal minuto 3.24 in poi)

Omero, ODISSEA, Nekyia (in greco antico: νέκυια)

 

Il precedente Libro X dell’Odissea si chiude con l’annuncio di Odisseo ai compagni dell’imminente partenza dall’isola della maga Circe, la quale ha consegnato loro un agnello e una pecora nera da sacrificare agli dèi inferi.

Odissea Libro XI – La nave riparte. Circe manda un vento favorevole che la spinge in direzione del regno dei morti. Al tramonto Odisseo e i compagni giungono sulla riva opposta dell’Oceano, nel paese dei Cimmeri (wiki: per Omero i Cimmeri sono gli abitanti di una mitica terra oltre l'Oceano - collocata forse nell'estremo settentrione - perennemente avvolta dalle nebbie, dove non arriva mai il sole, terra sempre coperta da una nebbia che i raggi del sole non riescono ad attraversare). Approdano e compiono i sacrifici richiesti; Odisseo scava una fossa con la spada e fa tre libagioni in onore delle anime dei morti, con latte misto a miele, vino dolce e acqua; promette loro, una volta tornato a casa, un solenne sacrificio. Immola poi l’agnello e la pecora nera, il cui sangue scorre dentro la fossa: ecco che dalle profondità oscure del loro regno emergono le anime dei morti, raccogliendosi intorno al sangue versato che potrebbe ridare loro un po’ di vigore.

L’eroe impedisce alle anime di accostarsi al sangue prima di aver interrogato l’indovino Tiresia. Si fa avanti l’anima di Elpenore, morto la mattina stessa; egli spiega le circostanze della sua fine (Odissea Libro X) e supplica Odisseo di dargli sepoltura, per consentire la pace della sua anima: l’eroe glielo promette. Odisseo intravede anche l’anima della madre, ma per ora deve tenerla ancora lontana.

La profezia di Tiresia – Giunge poi l’anima dell’indovino tebano Tiresia, che porta lo scettro d’oro sacerdotale. Egli beve il sangue delle vittime e acquista così le forze necessarie: l’indovino predice all’eroe la persecuzione da parte di Poseidone (perché Odisseo ha accecato il figlio Polifemo), l’arrivo alle coste dell’isola di Trinachia, dove pascolano le vacche del dio Sole: sarà indispensabile non toccarle, per poter ritornare. L’indovino “vede” con particolare chiarezza soprattutto la morte dei compagni, colpevoli di aver mangiato le vacche del dio Sole, e il ritorno solitario dell’eroe a Itaca, dove troverà gravi problemi e dovrà uccidere i pretendenti che corteggiano sua moglie Penelope. Gli predice poi un ulteriore viaggio per mare, finché incontrerà una terra in cui la navigazione è sconosciuta; allora potrà fermarsi e offrire sacrifici a Poseidone. Quindi tornerà a Itaca, offrirà sacrifici a tutti gli dèi e una lieta morte «verrà fuori dal mare» durante la sua serena vecchiaia.

L’incontro con Anticlea, madre di Odisseo – L’ombra di Anticlea, madre di Odisseo, beve ora il sangue delle vittime e riconosce il figlio. Egli la interroga; lei gli rivela di essere morta per il dolore della sua assenza e lo informa della fedeltà di Penelope, sulla crescita di Telemaco, sulla triste vecchiaia del padre Laerte. L’eroe tenta invano di abbracciarla: l’ombra inconsistente gli sfugge tra le mani.

Persefone a questo punto fa arrivare una folla di anime di donne illustre, spose e figlie di nobili, molte delle quali furono amate anche dagli dèi.  Esse bevono il sangue e a turno parlano con Odisseo, rivelandogli la propria vita. Ora Odisseo fa una pausa nel suo racconto: ormai è notte inoltrata, forse sarebbe opportuno andare a dormire. Il racconto di Odisseo è stato così interessante che tutti i Feaci hanno ascoltato in silenzio, come presi da un incantesimo. La regina Arete propone ai nobili Feaci di raccogliere ricchi doni per l’ospite, per invogliarlo a rimanere e a proseguire nei giorni successivi il resoconto dei suoi viaggi.

Anche il re Alcinoo ha molto apprezzato Odisseo: si dichiara disposto ad ascoltarlo fino all’alba e gli chiede se conosce il destino di altri eroi che hanno combattuto con lui a Troia. Odisseo afferma allora di aver incontrato anche le anime di alcuni di essi.

Il racconto procede con l'incontro con l'ombra di Agamennone e con l’anima di AchilleA questo punto Odisseo vede le anime di eroi famosi, come Minosse, Sisifo, che continuamente deve riportare sulla cima di un monte un macigno che ogni volta rotola a valle. Poi incontra Eracle, che gli narra le sue dodici fatiche.

 

 

Tratto dall’ebook “Odissea, riassunto, personaggi, luoghi e fatti dell’opera di Omero” 

(materiali vecchi)

Dal minuto 40 battaglia di Alesia

VIRGILIO

Egloga 4

Il successo dell'egloga IV è dovuta al fatto che il testo si presta a una duplice interpretazione profetica:

-                     da una parte  Virgilio sembra presagire la pax augustea, la cui ideologia comprende il ritorno all'età dell'oro;

-                     dall'altra l'opera si presterà, a partire dal IV, V secolo dopo Cristo, ad una interpretazione in senso cristiano.

Le tamerici.

Il componimento inizia con l'invocazione alle Muse siciliane e con un riferimento alle umili tamerici.

È momento di elevare il tono, di passare dalle umili tamerici ad un tono più alto, a selve degne di un console, in quanto l’ecloga è dedicata al console Asinio Pollione.

L'incipit verrà ripreso da Pascoli con un procedimento inverso: Pascoli dichiarerà di preferire le umili tamerici (da cui la raccolta Myricae) rispetto agli alberi ad alto fusto che nello specifico rappresentano la poesia altisonante e magniloquente come un certa produzione dannunziana.

Fine del mondo, inizio di un nuovo ciclo, di un nuovo “calendario” e Libri Sibillini.

A questo punto troviamo il riferimento al termine di un ciclo dei secoli e all’oracolo cumano.

Le Sibille erano sacerdotesse che pronunciavano oracoli, invasate dal dio Apollo.

Vi erano Sibille nelle diverse parti dell'impero: Libia, Persia, Eritrea, Frigia. Quella che ci interessa è la Sibilla di Cuma.

Secondo la leggenda la Sibilla di Cuma propose l'acquisto dei libri profetici in suo possesso al re Tarquinio.

Data l'elevata cifra richiesta, il re rifiuta. La Sibilla brucia un libro e ripropone l'acquisto allo stesso prezzo. Il re rifiuta di nuovo, la Sibilla brucia un altro testo, a questo punto il re Tarquinio incuriosito si decide ad acquistare i Libri Sibillini, che da allora vennero consultati nei momenti di crisi politica e tenuti in grande considerazione e venerazione.

Ritorno dell’età dell’oro.

Secondo Esiodo, un autore greco, autore de Le opere e i giorni, l'umanità degrada dall'età dell'oro, età in cui uomini, natura e dei convivevano in armonia sotto il regno di Saturno (in seguito spodestato da Giove), fino all’età del ferro. Saturno mangiava tutti i figli sapendo che uno di essi l'avrebbe spodestato ma Giove/Zeus viene nascosto dalla madre sul monte Ida e quindi il passaggio si compirà.

La nuova età dell'oro inizierà secondo Virgilio sotto il consolato di Pollione.

Dal momento che Pollione fu console nel 40 a.C. è in quest'anno che si deve collocare la composizione della poesia.

Il puer.

1. Si immagina che il puer sia appena nato, il padre gli è accanto: la terra non avrà bisogno dell'agricoltore, gli armenti non avranno bisogno del pastore, scompariranno il serpente e le erbe velenose.

2. Il puer è già cresciuto ed inizia a leggere le imprese del padre: dai roseti penderanno grappoli d'uva e le querce produrranno il miele, rimarranno solo tracce dei commerci e delle guerre, si insiste sul fatto che non ci sarà necessità di coltivare la terra.

3. Il puer è diventato uomo: si ribadisce che non sarà necessario il commercio, la terra produrrà tutto senza bisogno del lavoro umano, addirittura non ci sarà bisogno di tingere la lana perché l'ariete cambierà il colore della lana spontaneamente

4. il puer ormai uomo raggiunge i magni honores: ora tutto intorno è lieto e il poeta spera di riuscire a vivere abbastanza di avere uno spirito sufficiente per celebrare le sue imprese con paragoni ad Orfeo, Lino eccetera.

5. Il fanciullo appena nato viene invitato a sorridere alla mamma perché lo scambio del sorriso tra infante mamma era un segno di buon auspicio: a chi non sorride ai genitori un dio non concede la mensa, né una dea l'amoroso giaciglio.

Il locus amoenus.

Il locus amoenus viene immaginato secondo quelle che erano le principali attività e quindi difficoltà dell’epoca: l'agricoltura e la pastorizia per un approvvigionamento del cibo visto come frutto di fatica; la navigazione, il commercio e la guerra come fenomeni che allontanano gli uomini dalla propria terra, espongono a pericoli, alla morte. Come abbiamo avuto modo di constatare più volte, il commercio aveva per i Romani una connotazione negativa non solo in quanto attività rischiosa e che allontanava dalla propria patria, ma anche perché legato all’avaritia e alla luxuria. Per quanto riguarda la guerra, quando Virgilio scrive Roma è reduce da cruenti scontri fratricidi, si sta stipulando a Brindisi una tregua tra Antonio e Ottaviano ed è forse questo incontro che fa ben sperare il poeta nell’avvento imminente di una pax duratura.

Chi è il puer?

1. Un figlio di Asinio Pollione? Sembra improbabile tanto onore per il figlio di un console. 

2. Antonio e Ottaviano, con lo stesso Asinio Pollione come intermediario, si stanno accordando a Brindisi. Da questo accordo scaturisce il matrimonio di Antonio con la sorella di Ottaviano, Ottavia. Ne nasce una bambina, Antonia.

Nello stesso periodo Ottaviano sposa Scribonia. Anche in questo caso nasce una femmina, Giulia.

Può darsi che Virgilio pensasse genericamente alla prole di uno dei due, non immaginando il sesso delle nasciture.

3. Lo stesso Ottaviano (non ancora) Augusto?  Ottaviano nel 40 avanti Cristo aveva già 23 anni, non si stava ancora profilando lo scontro finale con Antonio, né appariva una figura così di spicco da fare immaginare quello che sarebbe diventato poi, quindi dovremmo riconoscere a Virgilio delle doti veramente profetiche.

Ad avvalorare questa ipotesi ci sarebbe l'interpretazione di Macrobio (V sec.), il quale ricorda come in Etruria l'esistenza di un ariete con un colore insolito fosse prodigio legato appunto all’emergere di un imperator.

Ma teniamo conto delle parole che Anchise pronuncia in presenza del figlio Enea nel quarto libro dell'Eneide, nel momento in cui, nell’Ade, sfilano le anime degli uomini che renderanno grande Roma, tra le anime lo stesso Augusto: “ecco tutta la stirpe di Julio … qui c'è l'eroe che più volte ti senti promesso, che di nuovo nel Lazio riporterà l'età dell'oro”. Anche questo elemento è stato considerato a favore dell'interpretazione del puer = Augusto.

Occorre far presente che probabilmente in entrambi i casi ci troviamo di fronte a stereotipi della lode e a rappresentazioni tipiche del leader politico dell’epoca antica, così come l’immagine delle first ladies di oggi, pensiamo alla moglie di Obama o a Kate d’Inghilterra, pretende il mantenimento un profilo basso, abbigliamento semplice ed un atteggiamento affabile ed informale.

“Orientalisti” ed “Occidentalisti”

Le identificazioni finora riportate sono quelle proposte da quelli che Bettini definisce “occidentalisti”, i quali puntano su figure storiche: dal momento che nel testo si fa riferimento ad un pater, a magni honores ecc., se ne deduce che questo puer debba essere un Romano.

Ci sono poi le posizione dei cosiddetti “orientalisti”, per cui Virgilio si sarebbe ispirato a tradizioni profetiche orientali, e qui le fonti di ispirazione possono essere varie: culto di Elio in d'Egitto (Norden), misteri orfici, ebraismo. Si ha notizia che lo stesso Erode venne a Roma nel 40 a. C. in visita a Pollione. Bettini (nel video) trova  improbabile che Erode abbia avuto il tempo di istruire Virgilio sulla cultura ebraica nel breve soggiorno a casa di Pollione.

È indubitabile che comunque suggestioni orientali fossero ampiamente diffuse a Roma soprattutto in ambito colto e quindi non si può escludere che Virgilio risentisse di teorie legate al senso diffuso di rinnovamento, di palingenesi legata ad un puer. Morte e reincarnazione (culti Orfici, culto di Iside e Osiride), la stessa visione escatologica, caricata di una dimensione compensatoria e consolatoria, sono ulteriori istanze che il Cristianesimo successivamente rielabora facendole emergere dal chiuso di sette e misteri per renderle accessibili ad una comunità più vasta.

Il puer divinus.

Spesso nella tradizione antica viene accostato un puer divinus ad un momento di passaggio, alla frattura tra due epoche, alla fondazione di una città, come impulso di una nuova cultura. Spesso queste figure di bambini sono legate agli animali; non compresi, respinti inizialmente dagli uomini hanno invece il riconoscimento della natura: Remo e Romolo e la Lupa, Gesù e il bue e l'asinello.

L'interpretazione cristiana.

La cristianizzazione avviene già nelle traduzioni greche di Lattanzio, all'età di Costantino, il primo imperatore cristiano. La Vergine non è più la giustizia, il serpente (pensiamo all’iconografia mariana della testa del serpente schiacciata dal piede) e la culla si caricano di simbologie religiose. Come si spiegano tante coincidenze?

Il Cristianesimo non inventa, raccoglie e investe di sensi nuovi, in un apparato iconografico strutturato, istanze, suggestioni, tendenze culturali, speranze.

E così lo stesso Dante nel Purgatorio fa pronunciare al poeta epico Stazio un elogio di Virgilio, secondo il quale, profeta inconsapevole, il poeta latino avrebbe illuminato la strada ai suoi successori.

da EURIDICE di Alida Airaghi (Verona, 1953)

IX

Ecco, ti sento, ci sei e sei vicina.

Ma non ti guardo, taccio, sono bravo.

Ai tuoi occhi sarò padrone e schiavo,

Euridice, mia madre e bambina.


Come vorrei mi prendessi la mano,

toccarti un braccio, sfiorarti la bocca:

so che non devo, so cosa mi tocca

se non resisto a starti lontano.


Sei silenziosa e ferma al mio fianco,

oppure ti nascondi, resti indietro;

segui ubbidiente il mio passo stanco


e nel tuo passo leggero ti ascolto.

Tu, trasparente pensiero di vetro:

voglio appannarti. Ecco, mi volto.


Orfeo ed Euridice

Cesare Pavese (1908-1950)

Dialoghi con Leucò

 

Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono

sempre il mondo sotterraneo e promisero a più

d’uno beatitudini ctonie. Ma il tracio Orfeo,

cantore, viandante nell’Ade e vittima

lacerata come lo stesso Dioniso, valse di più.

ORF. = Orfeo; BAC. = Bacca(nte)

 

 

ORF. È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti.  S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi «Sia finita» e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.

BAC. Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. Qui si diceva ch’eri caro agli dèi e alle muse. Molte di noi ti seguono perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che – solo tra gli uomini – hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.

ORF. Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.

BAC. Qui si dice che fu per amore.

ORF. Non si ama chi è morto.

BAC. Eppure hai pianto per monti e colline – l’hai cercata e chiamata – sei disceso nell’Ade. Questo cos’era?

ORF. Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.

BAC. Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.

ORF. Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla.

BAC. E così tu cantando avevi riavuto il passato, l’hai respinto e distrutto. No, non ci posso credere.

ORF. Capiscimi, Bacca. Fu un vero passato soltanto nel canto. L’Ade vide se stesso soltanto ascoltandomi. Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi.

La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.

BAC. Come hai potuto rassegnarti, Orfeo? Chi ti ha visto, al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un’esistenza.

ORF. Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.

BAC. Molte di noi ti vengon dietro perché credevano a questo tuo pianto. Tu ci hai dunque ingannate?

ORF. O Bacca, Bacca, non vuoi proprio capire? Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.

BAC. Qui noi siamo più semplici, Orfeo. Qui crediamo all’amore e alla morte, e piangiamo e ridiamo con tutti. Le nostre feste più gioiose sono quelle dove scorre del sangue. Noi, le donne di Tracia, non le temiamo queste cose.

ORF. Visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato tra i morti … Non vale la pena.

BAC. Un tempo non eri così. Non parlavi del nulla. Accostare la morte ci fa simili agli dèi. Tu stesso insegnavi che un’ebbrezza travolge la vita e la morte e ci fa più che umani … Tu hai veduto la festa.

ORF. Non è il sangue ciò che conta, ragazza. Né l’ebbrezza né il sangue mi fanno impressione. Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo. Neanche tu, Bacca, lo sai.

BAC. Senza di noi saresti nulla, Orfeo.

ORF. Lo dicevo e lo so. Ma poi che importa? Senza di voi sono disceso all’Ade …

BAC. Sei disceso a cercarci.

ORF. Ma non vi ho trovate. Volevo tutt’altro. Che tornando alla luce ho trovato.

BAC. Un tempo cantavi Euridice sui monti …

ORF. Il tempo passa, Bacca. Ci sono i monti, non c’è più Euridice. Queste cose hanno un nome, e si chiamano uomo. Invocare gli dèi della festa qui non serve.

BAC. Anche tu li invocavi.

ORF. Tutto fa un uomo, nella vita. Tutto crede, nei giorni. Crede perfino che il suo sangue scorra alle volte in vene altrui. O che quello che è stato si possa disfare. Crede di rompere il destino con l’ebbrezza. Tutto questo lo so, e non è nulla.

BAC. Non sai che farti della morte, Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

ORF. E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.

BAC. E che vuol dire che un destino non tradisce?

ORF. Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo.

BAC. Può darsi, Orfeo. Ma noi non cerchiamo nessuna Euridice. Com’è dunque che scendiamo all’inferno anche noi?

ORF. Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.

BAC. Dici cose cattive … Dunque hai perso la luce anche tu?

ORF. Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso.

BAC. Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza, si dilania o si vien dilaniate. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.

ORF. Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno. Nessuna donna come te, sa cosa sia.

BAC. Forse è per questo che ti seguono, le donne della Tracia. Tu sei per loro come il

dio. Sei disceso dai monti. Canti versi di amore e di morte.

ORF. Sciocca. Con te si può parlare almeno. Forse un giorno sarai come un uomo.

BAC. Purché prima le donne di Tracia …

ORF. Di’.

BAC. Purché non sbranino il dio.


Orfeo e Euridice

Gli dei mentivano.

Non potevi tornare,
è certo.

Noi lo sapevamo.

Ma quante volte
tornai a quella carezza e

il tuo ultimo
sguardo.

Null'altro
potevo avere.

Volli assaporarlo
fino in fondo.

Non capirono.

Istante di eternità

che ancora una volta
ci rese complici,

oltre la morte.
Dino Borcas il 19/03/2010 22:00
Rispetto alla versione classica, nella quale Orfeo si gira perché non sente più i passi di lei;
fra le numerose rivisitazioni del mito, mi piace citare quella di Gesualdo Bufalino: Orfeo la sacrifica volutamente, quale prezzo da pagare per diventare un mito, Euridice lo comprende, ma non può impedirlo (ed in questo qualcuno vedrebbe una rappresentazione della condizione della donna).
O quella di Pavese: Orfeo si gira, perché non può vivere accanto a chi continuamente gli ricorderebbe la condizione umana legata alla morte.
Nella mia versione, gli dei non avrebbero permesso a lei di tornare, entrambi lo sanno ed allora non resta che quell'ultimo sguardo, è una intima complicità fra loro due, tutti gli altri non la comprenderanno.

Spunti per una (ri)lettura del mito di Orfeo: poesia, amore, arte.

- Orfeo incarna la potenza eternatrice dell'arte: la poesia supera la morte donando l'immortalità

- la figura di Orfeo è legata all'immortalità dell'anima, a concetti di resurrezione e reincarnazione (misteri orfici)

Wikipedia: L'Orfismo è caratterizzato da una contrapposizione tra un elemento divino (dionisiaco) e una realtà corporea, materiale, opposta sul piano della natura (titanico).Nelle dottrine orfiche, per quanto si riesce a ricostruire, lo spirito (daimon), che risiedeva nei cieli, ha compiuto un peccato ed è decaduto dal regno dei cieli sulla terra, incarnandosi in un corpo che utilizza per espiare la propria colpa. Con la morte, l'anima trasmigra e si ricompone  in un altro corpo, che può anche non essere quello di una persona (questo dipendeva anche dal comportamento che il daimon ha tenuto nella vita precedente); se invece ha espiato la colpa, l'anima ritorna nel regno dei cieli.Tale liberazione poteva essere conseguita, secondo gli orfici, seguendo una "vita pura", la "vita orfica" dettata da una serie di regole non derogabili, tra cui l'astinenza dalle uccisioni.

Per Virgilio:

- Orfeo infrange il divieto divino, vinto dal furor amoroso/ Aristeo rappresenta il pius agricola e il labor

- Orfeo rappresenta la poesia soggettiva, amorosa/alla poesia civile e impegnata è riservata la vera immortalità?

Per Pavese Orfeo rinuncia deliberatamente perché:

- non ha senso recuperare Euridice per perderla di nuovo (Valeva la pena di rivivere ancora?)

- Euridice non sarebbe più la stessa, porterebbe con sé quel senso di morte e non farebbe che ricordarlo al poeta (Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue; già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte), Orfeo torna alla luce della vita da solo.

- Orfeo negli Inferi ha compreso la verità, che il proprio destino è il Nulla: come si può tornare a godere della felicità, sapendo che è solo illusoria? (Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore... L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho capito che i morti non sono più nulla)

- Anche il momento estatico concesso dall'amore o dal rito, con cui l'uomo si illude di superare, ingannare la morte, credendo di rompere il destino con l’ebbrezza, è inutile per l'uomo che ha conosciuto se stesso e il proprio destino: l'eterno Nulla. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade.

Ma non avrò più la forza di portarla là fuori, 
perché lei adesso è morta e là fuori ci sono la luce e i colori: 
dopo aver vinto il cielo e battuto l'inferno, 
basterà che mi volti e la lascio nella notte, la lascio all'inverno... 
e mi volterò le carezze di ieri mi volterò non saranno mai più quelle mi volterò 
e nel mondo, su, là fuori mi volterò s'intravedono le stelle ... (Vecchioni)

Vedi anche: Bufalino, "Il ritorno di Euridice"